Servendosi dei quattro elementi della fisica e infondendo in essi il pneuma artistico, le opere in argilla rappresentano l’antica nozione dell’arte che redime la materia attraverso la forma [1]. Emblematico il caso descritto nella Genesi, allorquando Dio, nell’atto di plasmare l’uomo dal fango, compare come un vasaio che esercita un potere assoluto sul vaso da lui stesso forgiato [2].
Se “il corpo è come un vaso”, così Luca Freschi rintraccia nella materia fittile la sua fonte primaria, declinata in un linguaggio plastico che rilegge e reinventa il patrimonio della tradizione secolare attraverso la predilezione per la terracotta e la ceramica, vocazione scultorea che è prevalsa dopo il suo iniziale apprentissage pittorico. In particolare, la ceramica si è rivelata per l’artista un ponte tra poetiche e prassi progettuali che consentono di restituire l’aleatorietà della materia e dell’esistenza umana. Avvalendosi di una tecnica che ibrida la pittura alla scultura, l’interdisciplinarità dell’artista fa leva sulle contraddizioni per riuscire a realizzare immagini «eterne e luminose» [3].
Le opere di Freschi inducono a continui déjà-vu che, in una commistione di tempi e luoghi differenti, spaziano tra richiami iconografici e formali, attingendo a culture del passato e dell’attualità, dalla mitologia all’arte antica, da quella rinascimentale fino ai linguaggi visivi contemporanei. Il tempo e la memoria sono i cardini della sua ricerca, secondo quelle circostanze che agiscono sugli uomini e sulle cose, imprimendo segni, disseminando tracce, alla maniera di un tessuto connettivo i cui labili confini si intridono di pensieri (reconditi) che chiedono di essere sondati in profondità. Tutto diviene storia e ricordo; persino l’arte viene consegnata al transitorio, confinata nell’infinita ripetizione che tutto rende presente e contemporaneamente assente.
Come detto poc’anzi la “traccia” definisce l’ambito di ricerca privilegiato dell’artista. Più precisamente, è dalla sensazione di perdita che nasce la necessità di tesaurizzare un momento, un luogo, un oggetto per farlo [ri]vivere, altrove e oltre il tempo. Freschi si riconosce nella puntuale definizione di Custode del presente, spiegando che «ognuno di noi è legato a oggetti che posseggono un valore che solo noi possiamo percepire» [4]. A questo proposito è lo stesso artista a portare il seguente esempio: «delle semplici forbici da sarto, trascendendo la loro funzione, diventano impulso per riflessioni sul tempo trascorso, sulla nostra storia personale e sulla capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero, creando un nuovo mondo a partire dai frammenti di quello preesistente» [5]. Nei rovelli dell’artista si percepisce un’intrinseca nostalgia, quel “dolore del ritorno” che è intimo e al contempo condiviso, presagio di ineluttabilità e insieme pungolo all’élan vital.
Attraverso un uso ricorrente del calco, abilità tipica dei “mascherari” (dall’uso antico delle maschere funerarie), l’evoluzione stilistica di Freschi muove dall’indagine sulla figura umana. Da principio le sue sculture – con il pathos sottaciuto proprio dei kouroi arcaici – incarnano il lavoro epidermico sulla mappatura dei segni che il tempo ha inciso sui corpi, come memorie illividite in un’impronta. Una memoria restituita quasi per scarificazione, senza ridipinture, spellata fino a mostrare la superficie grezza del cotto. Il tempo biologico è scomposto attraverso la partizione delle membra umane, dove le discontinuità, le sovrapposizioni, le fenditure non sono altro che un simbolo fatalistico, di prodigiosa rovina e di irrinunciabile rinascita.
Negli anni a seguire, le terrecotte di Freschi abbandonano il colore ferroso e ardente ricoprendosi di una patina lattescente, imbibita dalla policromia dell’ars picta. Opere come il San Giovannino diventano latrici di iconografie religiose: campane di vetro conferiscono alle composizioni la sacralità di una reliquia, circonfusa nel lucore della superficie, materiale di sorprendente lucentezza e solidità. Tuttavia, persino la quotidianità lascia dietro di sé lordure, cascami, resti insignificanti che con il passare del tempo assumono una loro sacralità.
Forme di gusto rinascimentale, colme di levità e di grazia, si con-fondono a stilemi pop dando origine ad accumulazioni pervase da una pantofilia [6] che inclina al transitorio e al deperibile. Ossa, fiori, corna e corvi (un lietmotiv nella produzione dell’artista, esplicito rimando al simbolo alchemico della mutazione, al passaggio dal materiale allo spirituale che sancisce viepiù il confine tra due mondi) riconducono alla perpetua dialettica tra composizione e decomposizione. Le opere assurgono così a icone della condizione umana, emblemi della caducità e della voracità del tempo, insaziabile, inesorabile, implacabile.
Se i busti bendati, ravvicinabili per lirismo alle teste clipeate diffuse in epoca quattrocentesca [7], invitano a guardare negli interstizi (né dietro né di fronte, bensì nel mezzo), il medaglione di supporto è una superficie specchiante, allegoria della vanità e del narcisismo, espediente che accentua il senso della profondità, meravigliosa illusione in cui rischiamo però di perderci o sprofondare. La schiettezza realistica di queste opere ha qualcosa dell’inquietante sdoppiamento che infrange il tabù della mimesi, dove il soggetto muove lo spettatore all’immedesimazione, proprio perché ciò che si “pone” davanti vi si “oppone” allo stesso tempo.
Maggiore compostezza e virtuosismo tecnico, oltre che un confronto più serrato con i motivi iconografici della contemporaneità, caratterizzano la produzione più recente, evolutasi in una ancor più ostentata aspirazione al plus-que-réel. Negli ultimi anni il campo d’indagine di Freschi si è condensato nei rimasugli e negli scarti, mutando in installazioni che rimandano a una visione più inclusiva, di tumulto e moltitudine. Suggestive vanitates di ceramica smaltata uniscono sedimenti, reperti e rifiuti che trasudano copiose lacrime. L’artista, non per caso, trae ispirazione dal concetto delle Lacrimae Rerum contenuto nel primo libro dell’Eneide in cui Virgilio descrive Enea approdare sulle coste cartaginesi e attraversare il tempio di Giunone, dove l’eroe si trova avvolto da immagini che rappresentano la guerra di Troia. Alla vista della sua città natale, devastata da incendi e distruzioni, Enea non riesce a trattenere il proprio sgomento e alla fine prorompe in un pianto di struggente disperazione.
L’accettazione degli eventi e delle avversità, senza più speranza né paura, è riconducibile al motto Nec spe nec metu, assunto da Freschi a coronamento dei suoi pavimenti d’ombra. Le opere  a tutti gli effetti composizioni plastiche ma che conservano la verticalità tipica dei quadri  raffigurano una storia ricostruita con perizia meticolosa attraverso ciò che resta del suo riverbero nella realtà. Gli avanzi, disseminati in un disordine relativo, contengono residui di umanità che si fanno portatori di una memoria collettiva. Rivivono in essi reminiscenze di antichi scenari della cultura greca  l’asàratos òikos o “pavimento non spazzato” cosparso dei resti di un banchetto  che l’artista decide di riattualizzare e in un certo qual modo ritualizzare.
Nella messa in scena, la banalità dell’azione si confronta sempre, insistentemente con la grandezza del mito classico. I resti della statuaria antica non sono altro che frammenti di storia, tracce di civiltà decadute che giungono a noi sotto forma di vestigia disgregate e degradate. La verità frustata che si annida nella discontinuità di questi reperti si accentua nei “notturni”, pavimenti d’ombre realizzati in terra nera smaltata; gli oggetti sembrano qui immersi in un buio abissale, una voragine che fagocita e assorbe in sé, rendendo tutto indi/stinto.
A detta dell’artista, ogni cosa ha origine da un’esperienza: l’opera diventa lo spazio dell’esistenza, un luogo nel quale ritrovarsi e riconoscersi. La spettacolarizzazione del banale, il suo enfatico dispendio, sembra attingere le proprie suggestioni dalle mise en place di Daniel Spoerri e dagli accrocchi di Joseph Cornell, in verità ogni oggetto di Freschi non è più solo un object trouvé ma è interamente ricreato, ex novo. Ciò che è destinato alla dimenticanza o distruzione (vecchi cocci, pezzi di bambole, foglie, corni spezzati, guanti da lavoro, musicassette, lattine…) viene riabilitato, persino rivivificato, perseguendo quell’inevitabile e sempiterno tradimento della tradizione.
Questo incessante e straordinario distillato tra passato e presente si palesa anche nelle ultime installazioni di configurazione totemica, le Cariatidi. L’intersecazione tra vasellame e busti all’antica riecheggia le personificazioni delle donne di Karya nell’atto di sopportare pesanti carichi per ricordare ai posteri la loro colpa e castigo [8]. Alla presunta robustezza delle imperturbabili figure, quasi non fossero gravate dal peso sovrastante, si sostituisce ora la sensazione di un equilibrio precario eppur perfetto. Di contro all’apparente instabilità delle colonne, la complessità dei rimandi culturali denota invece un sagace e sapiente bilanciamento; coesistono, in un insieme armonico, stilemi di epoche e correnti diverse, oggetti preesistenti e in parte realizzati mediante la tecnica del calco, mentre capitelli corinzi coronano la sommità della struttura, sublimando la loro funzione da attiva a passiva, da strutturale a decorativa.
In un mondo sempre più avaro di memoria, gli esiti più recenti di Freschi ci offrono un exemplum virtutis della nostra condizione esistenziale. La nostalgia per l’antico racchiude, dunque, il ricordo per qualcosa che non è più ma che ancora, tenacemente, permane. Imprimendo il passaggio dall’informe argilla alla forma scolpita del vaso, l’artista non è solo un demiurgo, è anche un collezionista di frammenti di storia, al pari di un filosofo eclettico  secondo l’accezione di Denis Diderot  che raccoglie, setaccia, trasceglie da generi, scuole, suggestioni diverse fino a raggiungere un inebriante affastellamento, sintomatico di una ricerca aperta ai legami con le testimonianze più autentiche dell’arte. Quell’esigenza di cercare fuori, verso epoche e culture lontane, non è altro che una sublime panacea che può alleviare la damnatio memoriae e la crisi di valori che pervade tutta la società contemporanea.
Ebbene, se il vaso come simbolo di ricettività allude al mistero dell’esistere di un corpo e finisce poi per evocare l’archetipo del gesto creativo [9], ammonendoci che l’uomo è “un vaso tra altri vasi di argilla”, entrambi sono fragili e fatti di terra, sono solidi tanto quanto effimeri. Malgrado ciò, Luca Freschi tiene a ricordarci che nella storia delle cose, persino nelle più umili, vane e insignificanti, è racchiusa anche la storia dell’arte.

1-Di fatto, tutti i grandi scultori impiegavano la creta come prima traduzione dell’idea; Winkelmann sosteneva che la lavorazione della creta fosse come la prima spremitura dell’uva e quindi la più fresca espressione della mente dell’artista.
2-Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari dalla Bibbia, a cura di M. Zappella, Cinisello Balsamo 2006, p. 112.
3-Dalle parole di Vasari a proposito della produzione di ceramica dei della Robbia, tecnica che aveva entusiasmato anche Leonardo nella disputa sulla durata delle arti. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, a cura di G. Milanesi, Firenze 1878-1885, rist. anast., Firenze 1973, II, p. 173.
4-Da una conversazione con l’artista.
5-Ibidem.
6-Il panthophile è colui che ama tutto.
7-La raccolta delle robbiane, a cura di B. Paolozzi, Firenze 2012, pp. 44-45.
8-Vitruvio, De architectura, 1.1.5
9-Anche la mitologia greca faceva risalire l’origine del genere umano all’impasto di terra e acqua, plasmato e modellato da Prometeo.


Uniting the four elements of physics and infusing them with artistic spirit, clayworks represent the ancient notion of art as redeeming matter through form [1]. An emblematic case of this phenomenon is described in Genesis, in the moment in which God, forming man out of mud, acts as a potter who exercises absolute power over the vase he fashions [2].
If the human body is like a vase, this is how artist Luca Freschi traces, in his own fictile matter, his primary source, rendering it in a plastic language that reinterprets and reinvents the inheritance of the secular tradition through its predilection for terracotta and ceramics, the sculptural vocation that would win out after its initial pictorial apprentissage. In particular, ceramics has revealed itself to the artist as a bridge between different poetics and forms of projectual praxis that allow one to restore an aleatory sense to matter and human existence. Availing himself of a technique that serves as a hybrid between painting and sculpture, the artist operates with contradictions in the process of realizing images that are “almost imperishable” [3].
Freschi’s works induce continuous feelings of déjà-vu, which, in a combination of different times and places, move between varied iconographic and formal references, adhering to past and present cultures, from myth to ancient art to Renaissance art to contemporary visual languages. Time and memory are the cardinal points of his artistic exploration, according to those circumstances that act on men and things, impressing signs and disseminating traces like a connective tissue the fleeting borders of which are permeated by (recondite) thoughts that ask to be sounded in depth. Everything becomes history and memory; art itself is consigned to the transitory, confined within an infinite repetition that makes everything present and at the same time absent.
As mentioned, the “trace” defines the scope of exploration privileged by the artist. More precisely, it is from the sensation of loss that there emerges a necessity to hoard a moment, a place, an object, in order to make it (re)live, elsewhere and beyond time. Freschi recognizes himself in the notion of a “custodian of the present,” explaining that “each of us is tied to objects that possess a value only we can perceive” [4]. In this respect, it is the artist himself to raise the following example: “simple tailor’s scissors, transcending their function, become an impulse to reflect on time that has past, on our personal history and on our capacity to distinguish the fundamental from the transient, creating a new world from the fragments of the one that came before.” [5] In the artist’s nagging thoughts, one perceives an intrinsic nostalgia, a “pain of return” that is intimate and also at the same time shared, an omen of ineluctability and the spur of an élan vital.
Through a recurring use of a mold, a technique typical of mask-makers (as far back as the ancient use of funerary masks), the evolution of Freschi’s style begins from an investigation of the human figure. From the start, Freschi’s sculptures—with a silenced, attenuated pathos proper to archaic kouroi—embody the epidermal work, the mapping of signs, that time has impressed upon the body, memories bruised within a mark. Thus, the work gives this memory back to us as a scar, without being painted over, skinned to show the rough surface of the sculpted material. Biological time is decomposed through the partition of human limbs, in which the discontinuities, juxtapositions, and clefts are nothing but a fatalistic symbol of prodigious ruin and essential rebirth.
In the following years, Freschi’s terracotta works lose their burning, ferrous color, and are covered instead in a cloudy patina, soaked instead in the polychromy of the ars picta. Works such as the San Giovannino become bearers of religious iconography: glass bells confer to the compositions the sacrality of a relic, bathed in the radiance of the surface, a material of remarkable lustre and solidity. Nonetheless, even the everydayness of the material leaves behind dirt, waste, insignificant remains that, with the passage of time, assume a sacrality of their own.
Renaissance-style forms, full of levity and grace, mix with Pop stylistic elements, giving rise to shapes and combinations pervaded by a panthophilia [6] that points to the transitory and perishable. Bones, flowers, horns, and crows (a leitmotif in the artist’s work and an explicit reference to the alchemical symbol of mutation, to the passage from the material to the spiritual that signifies much more than the border between two worlds): these elements all point to a perpetual dialectic between composition and decomposition. The works thus become icons of the human condition, emblems of transience and the voracity of time, a time that is insatiable, inexorable, and implacable.
As the blindfolded busts, whose lyricism reminds one of the clypeate heads diffused in the 1400s,[7] direct one’s gaze to interstitial spaces (neither behind nor in front, but in the middle), the supporting medal acts as a kind of mirroring surface, allegory of vanity and narcissism, and an expedient that accentuates a sense of profundity, a marvelous illusion in which we risk to lose ourselves or drown. The realistic frankness of works such as these has something of the disquieting doubling that breaks the taboo of mimesis, in which the beholder is urged toward identification, precisely because what is “posed,” put forth, is also “opposed” at the same time.
Greater composure and technical virtuosity, as well as tighter comparison with iconographic motifs of contemporaneity, characterize the artist’s most recent work, which has evolved in an even more ostentatious aspiration to the plus-que-réel. In recent years, Freschi’s work has condensed itself into debris and discards, which undergo mutations in installations that suggest a more inclusive vision of tumult and multitude. Suggestive vanitates of glazed ceramic gather sediments, archeological finds, and trash, material made by the artist to look as though it is seeping tears. Not by chance, Freschi draws inspiration from the concept of the Lacrimae Rerum found in the first book of the Aeneid, wherein Virgil describes Aeneas landing on the Carthaginian shores and traversing Juno’s temple, in which the hero finds himself enveloped by images depicting the Trojan War. At the sight of his home, devastated by fire and destruction, Aeneas cannot contain his despair and breaks into a desperate wail.
The acceptance of events and of adversity, with neither hope nor fear, leads us to the motto Nec spe nec metu, taken up by Freschi in the completion of his shadowy floorworks. These works—plastic compositions that nonetheless preserve the verticality typical of paintings—represent a story that is reconstructed with meticulous ability through what little remains of its reverberation in reality. The leftovers, scattered in relative disorder, contain residues of humanity that are bearers of collective memory. Within them are reminiscences of ancient scenes from Greek culture—the asàratos òikos or “unswept floor” scattered with a banquet’s remains—which Freschi reactualizes and in a certain way even ritualizes.
In this scene, one is everywhere confronted with the banality of the action, which stands in tension with the grandness of classical myth. The remains of ancient statuary are nothing but fragments of history, traces of fallen civilizations that come to us as disaggregated and degraded vestiges. The subtle truth that nests itself in the discontinuity of these remains is accentuated in the “nocturnes,” floorworks made of black, glazed earth; thus, the objects seem immersed in an abyssal darkness, a chasm that absorbs everything within itself, making everything indistinct.
According to the artist, everything originates in a singular experience: the work becomes the space of existence, a space in which to find oneself and recognize oneself anew. The spectacularization of the banal, its emphatic extravagance, seems to draw its suggestions from Daniel Spoerri’s mise en place and Joseph Cornell’s boxes; in truth, Freschi’s objects are no longer merely objets trouvés but are entirely recreated, ex novo. Whatever is destined for oblivion or destruction (old shards, pieces of dolls, leaves, broken horns, work gloves, tapes, cans…) is rehabilitated, even revivified, chasing an inevitable and perennial betrayal of tradition.
This incessant, extraordinary distillation of past and present makes itself manifest even in the most recent and totemic installations, the so-called Cariatidi. The combination of crockery and ancient busts echoes the figures of the Caryatids, women supporting heavy weights in order to remind their descendants of guilt and punishment [8]. The robustness of imperturbable figures, almost as though their weight were no burden at all to them, is instead replaced with the sensation of a precarious yet perfect equilibrium. Over and against the apparent instability of the columns, the complexity of the cultural references denotes instead a knowing, astute balancing act; in this harmonic whole, there coexist stylistic elements of different epochs and currents, with preexisting, partly sculpted objects coupled with Corinthian heads that crown the summit of the sculptures, subliming their function from active to passive, from structural to decorative.
In a world increasingly lacking in memory, the most recent results of Freschi offer us an exemplum virtutis of our existential condition. The nostalgia for the ancient encloses the memory for what is gone, what is no longer, but that, with its tenacity, perdures. Dramatizing the passage from formless clay to the sculpted form of the vase, the artist acts not only as demiurge, but also as a collector of historical fragments, much like some eclectic philosopher—following Diderot’s definition—who gathers, combs through, chooses between genres, schools, and diverse suggestions until they reach a stirring cluster, one symptomatic of an open exploration through art’s most authentic moments of witnessing. This demand to seek beyond, to look toward distant epochs and cultures, is a sublime panacea to alleviate the damnatio memoriae and crisis of values pervading contemporary society.
The vase as a symbol of receptivity alludes to the mystery of existing inside a body and also ends up re-evoking the archetypal creative gesture [9], warning us that man is but “a vase among other clay vases”—both are fragile and made out of earth, both are as solid as they are ephemeral. Despite this, Luca Freschi is keen on reminding us that in the history of things, even the most humble, vain, and insignificant thing can hold within itself the whole history of art.

 1-In fact, all the great sculptors used clay as the first rendering of an idea; Winkelmann argued that working with clay was akin to the first pressing of grapes and, as a result, the freshest expression of the artist’s mind.
2-Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari dalla Bibbia, ed. M. Zappella (Milan: Cinisello Balsamo, 2006), 112.
3-These are Vasari’s words regarding the ceramics of della Robbia, whose technique had managed even to impress Leonardo. G. Vasari, “Life of Luca della Robbia, Sculptor [c. 1400-1482],” in The Lives of the Artists, trans. Julia Conaway and Peter Bondanella (Oxford: Oxford University Press, 1991), 69.
4-Private conversation with the artist.
5-Ibid.
6-The panthophile is someone who loves everything.
7-La raccolta delle robbiane, ed. B. Paolozzi (Florence: Edizioni Polistampa, 2012), 44-45.
8-Vitruvius, De architectura, 1.1.5
9-Even Greek mythology imagined the origin of humankind within the mixture of earth and water, shaped and modeled by Prometheus.


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