SEDIMENTI SOTTOCUTANEI
ESPOSIZIONE PERSONALE
Spazio espositivo sperimentale GARO­, Forlimpopoli (FC)
16 – 29 giugno 2012


LA STATUA SI FINISCE CONTINUANDO AD ABBOZZARLA

La scultura: una identificazione ma anche un enigma, una forma che  dialoga con l’ambiente ma anche con le persone. Luca Freschi conosce bene il difficile ma affascinante percorso di un’opera plastica. La realizza, si confronta con essa e  si riconosce.
Che cosa rappresenta la mostra attuale nel tuo percorso artistico?
Racconta un anno di lavoro, quello fra il 2010 e il 2011. Un lavoro che si differenzia da quello precedente e, con ogni probabilità, da quello successivo.
Ogni opera definisce un momento preciso della vita e ne determina la crescita.
Sicuramente queste opere presentano uno sguardo molto più intimo di quello che ha sempre contraddistinto il mio lavoro.
Di conseguenza vogliono comunicare un messaggio…
Come ho detto è uno sguardo interno, sotterraneo tanto che alcune opere sono eseguite con carta da parati per comunicare la visione di un habitat intimo, familiare. Per questo talora sono esposti non solo i positivi ma anche i negativi che hanno prodotto l’opera, per sancire l’unicità e l’intimità di ciò che si crea e  si conserva all’interno dello studio dell’artista.
Come  si spiega, allora, il titolo ‘Sedimenti sottocutanei'?
Io lavoro tramite contatti epidermici attraverso i quali scaturisce l’opera. Il titolo definisce il senso che attribuisco alla pelle; in altre parole significa scavare sotto l’apparenza, dietro l’aspetto estetico. Si tratta di un lavoro figurativo, ma che va al di là della figura stessa. Per questo motivo le mie opere presentano tagli e crepe.
Nell’ opera i tagli e le crepe acquistano un valore superiore alla figurazione?
Certo, sono elementi imprescindibili della mia estetica e del mio raccontarmi, frammentazioni che distruggono le aspettative di uno sguardo unitario.
Tagli intesi come possibilità di penetrare dentro l’ opera?
Addirittura al di là dell’ opera e quindi in quei ‘Sedimenti sottocutanei’ di cui si diceva prima.
Nulla, perciò, è casuale in questi lavori…
Alcuni tagli sono studiatissimi e ricorrenti. Le crepe sono determinate dagli accostamenti dei vari strati di creta che durante l’ essiccazione e in seguito al loro naturale ritiro, creano le fenditure.
La creta, per  sua natura, è dunque destinata a soggiacere a fenditure?
Posso cercare  di controllarle, ma l’ ultima parola spetta alla terra.
Che cosa vogliono comunicare le opere: citazioni o vita vissuta?
Ogni opera nasce da una storia, da un racconto, da un avvenimento, da un vissuto…
Perché, rispetto ad alcuni cicli del tuo precedente percorso, in questi lavori hai limitato l'uso del colore?
L’ artista, ad un certo momento della sua ricerca, ritiene più importante togliere, anziché aggiungere elementi o colori. Questo perché cerca di approdare all’ essenza del lavoro. Nel mio caso è la terra che parla…
Dunque una dichiarazione d’amore alla terra?
È come un musicista che, all’ interno della sua composizione, lascia spazio alle pause per enfatizzare di più la nota successiva. Nel mio caso ho cercato di “suonare” la nota che mi è più cara: la terra.
In queste opere oltre alla parte esteriore, si indaga anche negli organi interni del corpo?
Uno su tutti: il cuore e, per non smentirmi, i cuori sono realizzati sul calco di un cuore di maiale.
Di maiale? Perché questa scelta?
Perché gli organi di animali transgenici, in particolar modo quelli di suini, possono essere impiantati nell’ uomo. Ecco perché ne ho scelto uno simile a quello umano.
In questo caso, però, a differenza delle altre sculture in cui l’ interesse è rivolto all’ epidermide, il cuore è colorato!
Oltre ad essere smaltato ho cercato di riprodurre tutti i piccoli capillari esteriori che compongono il muscolo, infondendogli, in questo modo, l’ aspetto di qualcosa di umido e di vitale.
Il cuore è solo simbolo di vita o contiene anche altri significati?
Tutti i significati che si possono associare a questo organo, come amore, passione ecc.
E non ha anche un carattere sacro?
Perché no? Il cuore ha una sacralità che deriva da riferimenti religiosi, i miei cuori potrebbero essere degli ex-voto, ma laici.
All’ interno di ogni opera c’ è sempre qualcosa che dialoga coi corpi…
Certo. Si spazia dalla carta da parati (=quotidianità dell’habitat), ai chiodi (=simbolo di passione), al favo con le rispettive abitatrici, vespe, api. Altre volte sono oggetti di recupero come una scatola da lustrascarpe o un vecchio cesto portafrutta. Sono tutte memorie che dialogano fra loro e alle quali è stata donata una nuova vita.

Rosanna Ricci



LUCA E UN MALEDETTO EQUILIBRIO

Non ho mai preteso di comprendere il lavoro di un artista nella sua intimità, perché tale deve restare. Di sapere le motivazioni profonde che lo spingono a concentrarsi su una cosa piuttosto che su un’altra me ne infischio. In linea di massima. Spesso dietro alle speculazioni para-filosofiche che un artista avvita al proprio lavoro c’è la mancanza del lavoro stesso, e allora giù con le pippe sul significato, significante, e giù con titoli declamatori, diarroici e pomposi quasi ad empire il vuoto che l’opera riflette. A me basta la sintesi, la ricerca della forma perfetta (e beninteso ognuno ha la sua) è l’unica strada per fendere il sistema nervoso di chi l’arte la guarda, la gode, coloro che in fondo fanno sì che l’arte sia tale. Quando c’è la forma, c’è anche il contenuto. Perché la ricerca dell’equilibrio formale è il frutto di uno dei travagli peggiori d’ogni artista d’ogni tempo. Allora per quale motivo malefico quando Luca (lo chiamo così, è un amico, un collega) mi racconta le motivazioni che lo spingono ad iniziare un’opera non mi irrito, e non gli dico semplicemente –
“Guarda che non serve che me lo spieghi! Guarda le tue opere: sono follemente belle, sono opere conchiuse, erudite, perfette o quasi. Nulla e poi nulla potrebbe essere modificato, questo dona loro un magnetismo che stordisce, che attrae verso di loro uomini e animali come corpi senza vita, senza più volontà? Cos’ altro serve che tu mi dica?”
Eppure non gliele dico queste cose che, ovvio non lo offenderebbero di certo, poiché si tratterebbe di un complimento che un artista fa ad un altro artista sì e no 5 volte in una vita. Nulla, mi taccio e lo ascolto. E allora devo sedermi, accendere la mia abat-jour e analizzare con attenzione questo mio “grosso problema”. Devo forse partire da un presupposto innegabile: l’opera di Luca Freschi è estremamente accattivante, seducente, se fossimo privi di cervello e spesso lo siamo, se ragionassimo con gli occhi e null’altro noi andremmo a loro con convinzione, tutti siamo attratti e al contempo respinti dall’analogon, dal nostro “hoffmaniano sosia perturbante”, dall’uomo che non è ma si mostra come tale. La scultura, quella cosiddetta a grandezza naturale o giù di lì, ti si para davanti, poggiante i piedi a terra esattamente come te, e ti fissa, con l’arroganza dei 360° di cui dispone, e l’uomo innegabilmente è portato a girarle attorno, a studiarla, annusarla, forse a cercare una conferma che di uomo non si tratta, in effetti. E di uomo non si tratta, non v’è dubbio, la figura di Luca ha tutte le caratterizzazioni morfologiche dell’uomo ma non prescinde, non può, dalla materia, anzi, la rivendica con forza, la esalta, la tratta come epidermide frollata e la tagliuzza, la scortica dolcemente, la aggredisce, ma mai e poi mai con la rabbia informale del “gesto artistico furente”, comunemente inteso, ma con la gentilezza del chirurgo, di un carnefice galante che sa dove colpire per non procurare dolore. Ecco, forse possiamo usare quella parola da tutti usata e mai a proposito, tranne qua: con Amore.
La terra, ecco il medium prediletto da Luca, gli artisti che giocano con la terra non la chiamano mai “creta”, ma terra. Materia antica e nobilissima, morchia marrone-grigia che spesso, è utilizzata più come matrice, come base per poi essere esautorata in nome di sostanze più nobili: lei fa il suo sporco lavoro, poi la si calca, e arriva una colata di bronzo a ricacciarla. E torna al suo stato proletario di massa informe, pronta per essere riutilizzata, e addirittura rampognata se si fosse permessa di asciugarsi anzitempo. Pochissimi nell’arte visiva, se non per le arti applicate usano la terra come medium artistico autonomo, Luca lo fa, con piena consapevolezza del magma con cui si sozza gioiosamente le mani, riabilitando a materia nobile quella che troppo spesso è un mezzo, e non un fine dell’arte. E la esalta proprio nelle sue manchevolezze! È lì che interviene l’artista, potentissimo a piazzare una lente d’ingrandimento sui i limiti di questo medium e a renderli punto di forza, in un’operazione dadaista di “innalzamento”. Spieghiamoci meglio, e cerchiamo di capire, riguardo alla terra, che comunque non è l’unica tecnica che Freschi paciuga, cos’è che in fondo mi fa pensare che lui sia una sorta di “ultimo Poverista” (inteso come Arte Povera), l’unico che fa della Figurazione, con la stessa voluttà concettuale delle installazioni di alcuni esponenti dell’ultimo grande movimento italiano nato fra i capelli canuti di Celant: È facile incappare in tre teste di Luca, bellissime, in terra (cotta), perfettamente inchiodate su altrettanti pannelli che godono della fascinazione vintage della carta da parati (un po’ lacerata). Sono lì, una bellissima scultura a muro si direbbe, e quindi anche più commerciabile. Ma a ben vedere le tre teste, disposte in sequenza sono differenti: la prima è leggibilissima, la seconda meno, la terza è quasi una fonduta di connotati. Il motivo è semplice: quella non è una scultura, è il risultato di una performance, di un happening, azione, intervento insomma, lo si chiami come si vuole, ma le tre teste sono state sottoposte a temporale, ciascuna per un tempo diverso. L’acqua che ricade sulla terra. La natura che si riappropria di se stessa. La pioggia che, incessantemente e inesorabilmente compie il suo processo di erosione, idratazione e perché no, distruzione. È la vita così, no?
Si può parlare dunque di “sola scultura”? O tra i riferimenti (magari inconsci) di Luca non si può non inserire un Penone, un Kounellis o chiunque abbia lasciato che l’opera interagisse col mondo che la circonda in modo anche brutale, scoperchiando la campana di vetro che protegge l’oggetto d’arte non si sa bene da cosa o da chi? Ecco, forse ho trovato un approdo: il versante concettuale nell’opera di Luca, e adesso ci faccio anche un titolino:
Il versante concettuale nell’opera di Luca Freschi
Che cosa intendo quando parlo di Concettuale? Questa parola ha trovato una culla confortevole tra le “parole dell’arte” e sembra non volersi più muovere di lì. Ogni opera d’arte vive di un dualismo inscindibile tra materialità e concettualità, ovvero tra l’aspetto formale e quello mentale. Tutti sappiamo che l’arte intesa come bellezza allo stato puro, da un certo giorno dell’anno di grazia 1912, quando un certo signor Duchamp fece una certa cosa, non esiste più. Il pensiero si è impadronito dell’estetica, a volte il pensiero la sostituisce completamente, succedeva tra gli anni ’60 e ’70, a volte le due cose convivono in modo paritario, sgomitano per una leadership ma non se ne viene a capo. Ecco, sarò all’antica o alla moderna ma io amo le cose così.
Di primo acchito l’opera di Luca appare un’opera materiale, di canoviana bellezza, naturalmente un Canova trasportato nel XXI secolo, ma non è così, e non tardiamo a capirlo. Le sculture di Luca non sono mai sculture tout court ma il frutto di un processo creativo, concettuale appunto che parte ancor prima del progetto, dello studio su carta, parte da un pensiero e attraversa tutte le fasi della creazione con la stessa dignità, dedizione (altra parola che andrebbe marchiata nel collo di Freschi a fuoco) e attenzione.
E non ci si riferisce alla pur legittima necessità che ha Luca di partire da “un fatto”, per ricevere stimolazioni: un fatto letterario, un personaggio o un oggetto a lui caro appartenente al passato (il poeta Thomas Chatterton o un macilento mobiletto), alla mitologia (il suo meraviglioso Narciso), all’iconografia religiosa ( il San Sebastiano, vera libidine di ogni artista), all’esigenza di raccontare storie, per dirlo con parole sue e prima ancora di Shakespeare, ma al risultato finale. Ovvero, nonostante il corpo sia nel suo lavoro un elemento imprescindibile, l’innesto e la combinazione con altri mondi catapulta l’opera di Freschi nel mondo del concettualismo contemporaneo spinto.
Quali mondi
Gli altri mondi a cui mi riferivo sono quelli dell’energia elettrica, quando dell’uomo di creta restano solo brandelli e l’opera è data da tante piccole luci disposte a terra, il mondo del lavoro manuale, quello di fatica, quello da cui Luca estrae chiodi lunghi e rugginosi per impalarvi morbidamente un cuore umano laccato a rosso, o un vecchio e logoro secchio da lavapanni che riprende vita con l’inserimento di una testa delicata al suo interno circondata da fiori.
Ridare vita, quindi, la parola d’ordine, al mondo della natura, onnipresente in tutto il suo lavoro, quando un favo d’api rinsecchito e relative antiche abitatrici cauterizzate vengono collocati entro una nicchia come la più perfetta delle sculture: quella che non ha avuto bisogno dell’uomo per essere compiuta. Non escluderei che un domani Luca “si auto-elidesse” totalmente dal suo lavoro, lasciando a ciò che già esiste in natura la piena dignità d’opera d’arte, prendendosi soltanto il compito di mostrarlo alla gente, come un ambasciatore. In tutto ciò non notate una particolare levità? Una commozione che, senza possibilità di essere equivocato, raramente si accompagna ad una figura maschile? Ora lo dico, se conoscessi solo il suo lavoro e non la persona sarei molto incerto se attribuire il suo lavoro ad una donna o ad un uomo, la perfetta simmetria che mantiene in precario equilibrio il dramma e la leggerezza in tutte le sue opere non consente un abbassamento di tensione mai. Poi però, mi rendo conto di un’altra caratteristica centrale del suo lavoro che non mi lascia più dubbi nell’attribuzione maschile: la capacità di sdrammatizzare.
La capacità di sdrammatizzare
Ironia, esiste da sempre e attraversa i secoli e le mode come un virus che talvolta si rivitalizza e distrugge tutto e tutti. È una parola, un concetto che in realtà non riesco a legare in toto al lavoro di Freschi, preferisco appunto parlare di “sdrammatizzazione”, smussamento se vogliamo. Perché raramente vuole denunciare qualcosa con l’arma dello sberleffo, dello sfottò, ma il suo divertissement è più auto-riferito, è più strettamente, indissolubilmente legato al lavoro e all’esigenza di renderlo più personale attraverso delle autentiche sbandate linguistiche votate a creare il cosiddetto corto circuito. E dio sa quanto ci riesca. Ecco perché non parlerei propriamente di ironia ma di sdrammatizzazione.
Chiunque di voi, vedendo la mostra, comprenderà immediatamente che in primissima istanza è la forza, l’impatto a catturare la percezione. Qualcuno può parlare perfino di “inquietanti sculture”, ma si tratta di un equivoco.
C’è sempre un qualcosa di domestico, di volutamente grossolano e pop, di goffamente familiare a stemperare la tensione innata dei lavori di Luca. Lo si avverte, lo si fiuta lievemente nelle opere esposte, e forse ancora maggiormente in alcuni cicli precedenti del suo percorso. Come un mutandone a pois che ridicolizza (in senso lato) Narciso, elementi fortemente caratterizzati da una fattura industriale, e quindi plasticosi, sgargianti di colore vanno a inficiare la nobiltà della materia “fatta a mano” come frecce fluorescenti nel corpo del santo, o gli straordinari passerotti in terra laccata a colori vivissimi che becchettano le carni terrose di corpi inermi, ma mai sofferenti.
Il ciclo dei volatili, dove una pacifica invasione di uccellini si nutre dei severi corpi di Luca, rappresenta forse l’extrema ratio di tutto il suo lavoro: un Maledetto Equilibrio fra dolcezza iconografica e furore realizzativo, fra purezza estetica e simbolismo, fra dramma e connotazioni pop tese a gettare acqua sul fuoco, a mandare a casa la gente tutto sommato tranquilla a guardare la tv, a fare all’amore e alla guerra, a farsi i fatti loro.
Perché l’arte è una cosa troppo importante per essere presa sul serio, e Luca lo sa.

Jacopo Flamigni
 
 

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