LACRIMAE RERUM
Luca Freschi, scultore, è insieme poeta e collezionista della memoria. Al centro della sua ricerca vi è il ricordo, anzi i ricordi. Li pensa nelle loro possibilità filosofiche, li medita negli umani affetti, li ricerca nel contatto diretto con le cose. Nel suo lavoro passato, e in buona parte di quello presente, le terrecotte catturano la vita di corpi e oggetti, prendono possesso delle linee della pelle, assorbono i segni delle cose, ne assumono il tempo, il respiro, il racconto. Il mondo lascia un’impronta diretta sulle sue stesure di creta accogliente, una traccia di sensi, di sentimenti. Gli dèi, gli eroi, le gallerie di ritratti passano attraverso la pazienza di volti viventi; i sacri cuori smaltati si costruiscono su organismi di carne, impreziosiscono lo scarto ancora caldo di macelleria e lo trasformano in ex voto, in simbolo mistico, in reliquia egizia, in riflessione antropologica. Freschi riconsegna all’arte sacra – alchemica e funeraria – la carne, trasformandone la vita e la storia in un segno della sua trasfigurazione.
Ma “ricordare” significa etimologicamente ricondurre al cuore le realtà trascorse: riviverle dunque nel pensiero e, soprattutto, ridare alle cose pulsione di muscolo e flusso di sangue e di linfa. Ed è al pianto trattenuto che si consacrano questi lavori (alcuni recentemente esposti in una significativa personale presso la Galleria Stefano Forni di Bologna), affidandosi all’eloquenza di un umor acqueo nascosto, a cui l’artista può ridare evidenza.
Lacrimae rerum è la consapevolezza virgiliana di quanto la mente venga toccata e ferita dalle povere presenze mortali, proprio perché nella loro fugace fragilità, restano colme di memoria e bellezza, di rimorso e nostalgia. È stato il Giappone antico e classico a dare a quest’esperienza la sua definizione estetica più esatta : “mono no aware”, cioè coscienza della precarietà delle cose, lieve senso di rammarico e di pietà che comporta il loro necessario trascorrere. Né lo stoicismo romano, né il buddhismo nipponico, nella loro rigorosa e laica religiosità, hanno potuto medicare del tutto la melanconia della precarietà, ma ne hanno esaltato le possibilità di un’aristocratica considerazione poetica.
Freschi raccoglie ora manufatti domestici, memorie fotografiche, voci, canti, minuscole tracce delle vite sconosciute degli altri e dei loro indecifrabili segreti che erano destinati alla dimenticanza e alla distruzione. Con mente commossa l’artista le colleziona, le conserva con fedeltà gelosa e le ricompone in una nuova narrazione che ne sappia ridire lo stupore, le sofferenze, gli enigmi. La ricostruzione di possibili luoghi di esistenza e di affetti non si riduce solo a una serie di wunderkammer intessute di piccole curiosità. Qui non si espongono meraviglie vere e proprie, rarità scientifiche, virtuosismi della natura e dell’arte, voli pindarici del caso o del più accorto artigianato, messi insieme dal gusto squisito di un connaisseur. Qui si formano racconti, frammenti del mondo fluttuante: si ricompongono case e stanze di coloro che per volontà o sciagura, per destino avverso o superiore libertà hanno perduto la dimora o forse solo le orme che vi conducono e abitano lo spazio sottile di un inevitabile, suggerito rimpianto.
Alessandro Giovanardi
ALBUM
Ho messo sullo specchio, al posto del mio volto, quella tua fotografia, dove stai seduta sulla balaustra, nel fondo la chiesa di San Firmino che veglia sulla nostra prima gita. Tu ti stringi nelle spalle, timida, per la posa che sopravvivrà a noi, e resterà intatta oltre i giorni; hai appoggiato con cura la borsa, per paura che cada di sotto. Hai scoperto appena il ginocchio, come io da poco ho scoperto i terreni inesplorati del tuo corpo. Hai voluto aspettare la promessa, l’altare, ed ora impari l’amore lettera a lettera, come una scolara. Non stai sorridendo, t’interroghi su di me, sul mio sguardo parato dietro l’obiettivo, sulla mia mira esatta verso il nostro destino.
Sei ancora lì, poco lontana, sul bordo della fontana, in tutte le pose sei sul limite, in limine tra due mondi, terra e acqua, terra e cielo ed io nascosto dietro l’ottica dell’apparecchio faccio in modo che tu per sempre ti possa fermare, che non valichi la soglia, non te ne vada lontano. Le nostre fotografie sono l’unica cosa che ho tenuto della mia prima vita, di quella maiuscola. Le fotografie sono la mia casa, sopravvissuta all’incendio che sono io. Tra poco anche le foglie degli alberi sullo sfondo andranno in fiamme, l’autunno si prenderà le nostre giornate all’aperto, i nostri viaggi brevi, sull’utilitaria scricchiolante, un Ronzinante bianco e malridotto nella pianura disseccata.
Anni dopo, hai ancora lo stesso vestito, perpetuato nei rammendi del dopo cena, tutte le cose con te potevano durare oltre la loro vita. Io solo non posso durare, oltre la nostra.
Quel giorno allo squero, nella striscia sottile di sabbia tra le barche tirate in secca, tu con la tesa larga e gli occhiali, la maglietta accollata, proteggevi la tua pelle scottata e il bambino invece nudo, tenendo addosso soltanto i sandali, con gli occhi tagliati nella punta, si offriva al sole biondo come la sua testa. Ascoltava le storie delle sirene, i romanzi dei marinai che rattoppavano i buchi con la stoffa imbevuta di catrame. Senza cera nelle orecchie, ha ascoltato tutto, ha dato retta al richiamo potente del mare.
Nella foto sovrapposta lui è sospeso tra due mondi, il suo corpo di angelo trasparente non trova terra, sta nel palmo della tua mano, ricoverato in una carezza, leggero, senza carne, senza nemmeno quegli anni che gli sono bastati a niente. Il nostro bambino è imprendibile, nella membrana del tempo, una tendina a fiori che si solleva nella brezza. È eterno e senza futuro, è imperituro, e non è più.
Mio padre ragazzino con la divisa adulta e compita del cadetto, ha il suo stesso sguardo, lungo e gentile, una traiettoria che buca l’orizzonte e approda in altre rive, oltre quelle di chi lo sta guardando. Lui ha raggiunto il nonno, nell’età di quella vecchia foto ed ha deciso di non proseguire, di restare appoggiato con un braccio alla fanciullezza, come mio padre, su un piede solo, inclinato con fiducia verso la spalla del suo tutore. Lui guardava spesso quell’immagine e sceglieva il nonno, tra i molti compagni, toccava il suo volto con l’indice e poi diceva: “siamo noi”.
La nostra tavola è stata spaccata, alla fine dei gomiti, la crepa che non trova più, lo sguardo dell’altro a un centimetro di distanza, nel sorriso resistente e aperto, con la mia mano destra che per sempre si è staccata dal braccio e si è concentrata nel vegliare te. Il dolore ha tagliato le sorti, la tristezza che non può essere patita e quella che cerca consolazione. Una sola pena che ha finito per diventare due.
Non ci sono fiori a rammentare, offerte di memoria sotto le fotografie, solo una spina vegetale, un dente di cactus che ferma la caduta, spilli negli occhi a trattenere l’antico sguardo, oltre il mio sopravvivere.
E il canto mi porta lontano, una direzione segnata dal sangue non mio. Il suo calore non mi verrà a mancare, traccerà la scia di una vocazione al cammino.
Ho lasciato il pennello sporco sulla mensola, ho compiuto il mio ultimo gesto di una vita vissuta tra gli altri. Domani guadagnerò una strada, una barba come un nome; abiterò la mia barba e i suoi cartoni, lo specchio avrà impresso il ricordo della mia ultima immagine a dimora, quella ancora capace di fiorire. Ora lascio il sapone e i peli tagliati come briciole del ritorno, come sindone della mia prima faccia … quella che sempre è rimasta, quella che sto per smarrire.
Sabrina Foschini