«Una serie di percezioni risveglia in noi l’idea della durata, ma non
la sostituisce. Le nostre percezioni non hanno mai una successione
così costante e regolare da rispondere a quella del tempo,
che è continuo, uniforme e semplice, come una linea retta...»

(Gottfried Wilhelm von Leibniz)

«Come nella memoria si costellano fatti lontani fra loro formando
dei mulinelli nel flusso dei ricordi, così capita nella vita che si aprano
vortici dove roteano svasati in una coincidenza, in una simultaneità
inspiegabile, elementi che dovrebbero esser separati dal tempo
e dallo spazio»

(Elémire Zolla)

[…]

Di barbariche freschezze si nutre Luca Freschi. Egli opera prettamente nel campo della scultura ceramica policroma e nel ready-made rivisitato. Qui è presentato con una campionatura di otto opere che documentano gli esiti delle sue più recenti ricerche. La materia è declinata in una dimensione anomala che sconfina nell’iperbole linguistica tradizionalmente intesa grazie alle raffinate accumulazioni oggettuali, dense di allusioni e simbolismi, talora ironici e irridenti, sempre e comunque pervase da un senso di attrazione nei confronti di quanto è transitorio, deperibile e in disfacimento.
Così le opere divengono tutte icone della nostra povera condizione umana.
Nella Vanitas prescelta a immagine di questa mostra ecco che frammenti e avanzi di vario genere ci vengono offerti in modo edulcorato su di un semplice bacile metallico. Un piccolo putto decapitato, qualche foglia, un corno spezzato, una coda di pesce, un frammento d’ala, qualche rosa di gusto un po’ kitch... Siamo nel mondo dell’usa e getta, nell’universo dello scarto, già proiettati nello specchio irriverente della società dei consumi.
Lo scarto elevato ad opera d’arte per una nuova condizione esistenziale. La grande lezione del Novecento recuperata, ripercorsa e reinventata. Attraverso l’uso della ceramica l’artista attua, talvolta, una nobilitazione dei frammenti, di oggetti inutili, usurati, rovinati donando loro una nuova bellezza per una vita “eterna”. Privati dei segni del tempo, edulcorati nella trasfigurazione nobile della materia adottata, sottratti alla deperibilità ecco che una dentiera, un vecchio guanto, un corno, un frammento di bambola, un Crocifisso, un fiore, una corona, una fotografia acquisiscono una nuova valenza estetica: quella magica ed enigmatica dell’opera d’arte.
Luca Freschi realizza, infatti, sculture e assemblaggi di inquietante bellezza dove la dialettica della composizione e decomposizione, della morte e della rigenerazione esemplarmente ci riconducono al senso profondo del vivere e del morire. Nature postume, artificiose e artificate, ri-composte come tracce oggettuali che ci parlano di sentimenti, di presenze e di assenze: di ricordi.

Gli animali, ad esempio, e gli uccelli in particolare, hanno sempre avuto un ruolo importante nelle sue composizioni: sui calchi di torso d’uomo lasciati in terrarossa abbiamo visto corvi multicolore che divoravano le carni; oppure sui teschi di animali cornuti li abbiamo ammirati appollaiati, gioiosamente. Qui, di fronte alla grande teca del soldato, ecco un omaggio a Domenico Baccarini (meteora e mito del primo Novecento faentino e romagnolo) - D.B. 1882 (2017).
Baccarini era nato nel 1882, esattamente 100 anni prima del nostro Luca Freschi e appena due anni prima di Renato Serra. L’artista immagina che i due, entrambi morti giovanissimi (rispettivamente a 25 e 31 anni), abbiano avuto occasione d’incontro e conoscenza. La testa di fanciullo - bianca maiolicata, con la bocca appena mossa al sorriso - è stata ricavata da uno stampo autentico di Baccarini e assemblata su alcuni objet trouvé: un vaso, una rosa, una banana. Appollaiati sopra, due corvi neri dal becco bianco: psicopompi, simbolici messaggeri fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Così, frontalmente collocata, lo sguardo del fanciullo idealmente incontra quello del soldato, per un ultimo rinnovato saluto.
In una cosmogonia di materiali diversi - ceramica, terracotta, gesso, tessuto, legno, vetri, plexiglass - Luca Freschi declina sapientemente le emozioni e i riverberi della sua giovane esistenza. In un’opera di alcuni anni fa assistiamo ad una deflagrazione cromatica inusuale ideata per restituirci il canto di un semplice gesto delle mani. Accade nell’opera Geda (2010): ricomposte una sull’altra, complete del loro calco, entrambe fatte a pezzi e riassemblate separatamente su di un tessuto spiazzante à pois, dal sapore vagamente pop, ecco l’opera costituita da due piccole teche. Collocata nella Sala Biblioteca di Casa Serra, illuminata da una luce aranciata, trasversalmente entra in dialogo con la Vanitas collocata sotto teca sul tavolo e con le Sterili Nature di Elena Hamerski, poste dirimpetto. E tutto torna.

Nel corridoio, di fronte alla grande vetrata prospiciente il giardino interno, fra busti di gesso di antica memoria è collocato L’apprendista uomo (2010): occhi chiusi e fra le labbra un biglietto con la scritta Emet. Qui è il mito del Golem che infiamma l’artista. Nel racconto di Borges il Golem prendeva vita solo quando il suo creatore gli scriveva in fronte, o gli inseriva tra le labbra un foglietto con su scritto “emet” cioè “verità”. Al contrario cessava di vivere quando il suo creatore cancellava la prima lettera, l’aleph, ottenendo la parola “met”, “morte”. Lo scavo letterario della pagina di Borges qui rivive potentemente in figura scultorea. E l’infinito della creazione metamorficamente ci attraversa...

Giungiamo così nelle ultime stanze. I tre grandi tableaux di Luca Freschi - Jesus’ Blood Never Failed Me Yet (2013), Post ideology (2015), Forget your Future (2013) - entrano in dialogo con i manifesti commemorativi dedicati a Renato Serra, qui conservati. E i piccoli grandi mondi di Joseph Cornell tornano alla mente.
Si tratta di una sorta di frammenti d’abitazione “al completo” - ora con assi di legno alle pareti, ora con carta da parati usurata dal tempo - che s’incuneano perfettamente nell’immaginario del mondo degli affetti che questa mostra perlustra. L’artista ha riunito sotto teca appunti, ricordi, fotografie, fiori finti, una banconota, immagini religiose, parti di mobili, un ferro di cavallo, oggetti di superstizione e tanto altro ancora. Tutto per sedimentare un mosaico denso d’affezione.

E viene da interrogarsi: chi ha lasciato la propria casa per andare in guerra - chiunque, per qualsiasi guerra di qualunque tempo - quali frammenti avrà portato nel suo cuore? Come avrà potuto ricordare la sua casa e i suoi affetti... per non dimenticare? Quali mescolanze avrà operato la sua mente?
Queste opere d’arte, in fondo, ci offrono una trasmutazione immaginaria. E noi ci rispecchiamo in essa.
Perché, nelle trasfigurazioni artistiche tutte le cose, sottratte alla loro deperibilità - reale o solo immaginaria - acquisiscono una nuova dimensione estetica, fra artificio e realtà là, nei paesaggi interiori, fra sensi e anima dove tutto magicamente si ricompone.

Marisa Zattini
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