“Vi sono segni che ci costringono
a pensare il tempo perduto...”

(Deleuze – Marcel Proust e i segni)


Due grandi misteri l'essere umano deve affrontare nel suo breve trascorrere: il corpo e il tempo. Il corpo nel tempo e il tempo nel corpo. Il corpo attraversa il tempo modificandosi ininterrottamente e il tempo lascia continuamente i suoi segni inconfutabili sul corpo. Il corpo é sempre, dunque, una mappa terribilmente esatta dei segni che il tempo ha inciso su di lui.

Tutto il lavoro di Luca sembra svolgersi e svilupparsi dentro questa dialettica incessante di corpo e tempo. Osservando attentamente il suo lavoro questo appare, anche all'interno di cicli differenti di opere, assolutamente chiaro: il tema è sempre, ossessivamente, la relazione corpo-tempo attraverso i segni che questa relazione lascia necessariamente dietro di sé. Nella serie dei “calchi” di corpi interi o di singole parti anatomiche, con quella loro superficie spaccata come da una irrimediabile siccità, il tema fondamentale acquista a volte una sua evidenza monumentale e questo amplifica ancor di più la stessa profonda impressione di trovarsi di fronte a memorie trasfigurate di ciò che un tempo è stato vivo e reale, ma che ora non è che testimonianza, orma, impronta fedele, “calco” insomma, segno del tempo. Nelle “bacheche o ex-voto” (le definizioni sono mie e contengono già una mia interpretazione del lavoro recente di Luca: raccogliere oggetti ritrovati per collocarli “con arte” in contenitori costruiti appositamente o ritrovati anch'essi) i segni del tempo sono le tracce evidenti di ciò che resta dell'usura del tempo: una specie di 'raccolto', apparentemente casuale e indifferenziato, di vestigia e rovine di piccole cose, che una volta, forse, hanno avuto un luogo privilegiato accanto a noi ed ora, sbreccate, consumate e ingiallite, vanno a formare il quadro di una strana archeologia del 'tempo ritrovato'. Ma il ritrovamento e la ricomposizione non riescono a costituire mai una redenzione dei segni: seppur composti in una cosmesi che assomiglia a quelle che si fanno sui deceduti, questi resti non riescono mai a ritrovare la loro narrazione originaria, possono intonare soltanto un nuovo illeggibile canto, in cui la memoria sempre si trascende in un'altra melodia.

Anche nelle su opere più recenti (una diretta conseguenza di queste ultime ed anche, in qualche modo una sintesi di tutto il lavoro precedente), che Luca emblematicamente chiama “Vanitas”, il tema fondante del rapporto corpo-tempo appare come la sorgente poetica e simbolica di ogni suo cercare: dentro teche e campane di vetro, che evocano echi di liturgie e iconografie di religioni residuali o oramai dimenticate, sono assemblati con gusto squisito frammenti di ceramiche e figure intere che, insieme, si rendono stranianti quasi come un ready-made duchampiano , ma riescono comunque ad emanare lo stesso flebile canto che nasce dagli oggetti dimenticati di tante scene d'acqua di Tarkovskij.

E' la “traccia”, dunque, il luogo poetico privilegiato di Luca, la sua ossessione formale, il fondamento del suo viaggio artistico. Forse perché senza “traccia” non vi sarebbe testimonianza alcuna, non resterebbe nulla ad ostacolare l'instancabile lavoro di cancellazione del tempo e tutto sprofonderebbe inghiottito dal suo abisso.

Enrico Lombardi - 6/2017

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